Melania Fumiko, intervista alla stilista che “racconta il mondo”- Avremmo forse dovuto cominciare a parlare di abiti, i suoi abiti. Ma io di moda proprio non me ne intendo, tantomeno di abiti da sposa.
Quelli di Melania Fumiko (questo è il suo nome proprio, il cognome è Benassi) a dire il vero sono speciali. Sono diversi da tutti quelli che io abbia visto fino ad ora. E facendo (anche) la fotografa di matrimonio, a onor del vero ne ho visti tanti. La sensazione che si ha guardandoli è che ciascuno di loro racconti una storia, la storia di una persona.
Gli abiti della collezione 2020 di Melania Fumiko hanno i nomi delle città. Si chiamano Tokyo, Siviglia, Copenaghen. Praga, Mosca, Parigi e Kyoto. Un giro del mondo che Melania Fumiko ha cominciato ancora prima di nascere, 34 anni fa.
Sono nata a New York da una coppia di Italiani, ma i miei genitori non avevano mai vissuto in Italia prima che io nascessi. La mia tata era Polacca, e da lei ho imparato le prime parole. Quando sono arrivata in Italia alla fine degli anni Ottanta la mia “lingua” era un mix di parole. Dai miei genitori ho ereditato l’apertura verso “l’altro”. Non è qualcosa che mi è stato davvero “insegnato”, ha fatto parte da sempre di un certo imprinting quotidiano, e non è certo un caso che mio marito sia Ecuadoriano, è come se avessi chiuso un cerchio. Lo sguardo “aperto” di chi ha vissuto in giro per il mondo è diverso, si riconosce.
Oggi, dal tuo atelier di via Chiossetto, tanto centrale quanto appartato, come dialoghi con il mondo?
Mi piacciono le persone e le loro storie. Ho aperto la mia attività nel 2015 e l’atelier l’anno successivo. Quello che faccio non è “semplicemente” disegnare abiti, ma ascoltare ed ereditare storie. Gli abiti sono solo punti di partenza, l’atelier è un punto di osservazione privilegiato sul mondo. All’inizio realizzavo più abiti da cerimonia, mi sono stupita di arrivare agli abiti da sposa.
Come sei arrivata qui dopo avere studiato Economia in Bocconi?
Questa è la mia seconda vita. Nel 2012 è morta mia madre, quella che per me è stata una vera e propria musa. Da bambina amavo le ore di lezione di cucito, ma l’ho sempre tenuto nascosto. La mia parte creativa arriva da lontano, mio nonno era la classica persona in grado di costruire oggetti dal nulla, ed è da lui che ho ereditato l’inventiva.
Dopo la morte di mia madre ho deciso che avrei recuperato quello a cui avevo rinunciato.
Nel tuo nome, nelle linee dei tuoi abiti, in quella foglia di Gingko Biloba, una linea sottile ma decisa che parla di Giappone…
Purtroppo non ci ho mai vissuto, ma è un Paese al quale sono legata da prima della nascita. A partire dal mio nome: Fumiko è stata la prima maestra di cerimonia del tè di mia madre. I miei genitori hanno vissuto otto anni in Giappone, per cui per me è sempre stato normale mangiare giapponese, avere mobili giapponesi, essere vicina a questa cultura nella sua quotidianità, non c’è nulla di artefatto in questa vicinanza, per me è davvero una consuetudine. Per questo quando cercavo un nome per la mia attività, ho scelto il mio. Perché contiene la mia italianità ma anche il mio legame con la cultura giapponese.
Tokyo, Siviglia, Copenaghen. Praga, Mosca, Parigi, Kyoto. Come riesci a coniugare il giro del mondo alla storia delle tue spose, nella creazione dei tuoi abiti?
I nomi di città sono ispirazioni. L’abito Kyoto, ad esempio, nella sua lavorazione vuole ricordare l’effetto delle lucine lungo il fiume. Ho passato molto tempo a Kyoto con mio marito, mentre la collezione Yuki si ispira alla neve, la neve delle mie montagne. Ma a monte c’è sempre uno studio profondo dei tessuti. Li faccio arrivare dal Giappone, dal Portogallo, dalla Francia e da Como. E poi ci sono le storie degli altri, quelle costruiscono gli abiti ogni volta in modo differente.